PALERMO. Diversi. Non sono né bianchi, né rosati, né rossi: sono “arancioni”. Piaccia o no, l’orange è diventato il quarto colore del vino. Un po’ come l’umami è la quinta delle quattro sensazioni saporifere. Sono vini bianchi da macerazione in rosso.
Orange wine seduce e conquista
L’esatto contrario dei rosé. Lungo contatto con le bucce, poi eventuale fermentazione in legno e affinamento in terracotta come i grandi Radikon e Gravner con la loro Ribolla Gialla, pionieri friulani di questa declinazione.
Tipologia alla stessa stregua della Georgia
Tipologia che ormai è alla stessa stregua di quelli della Georgia, là dove nacque tutto. Là dove ci sono i kvevri, i contenitori di argilla sepolti nella terra dove il vino macera rimanendo a contatto con le bucce anche per mesi. Non solo Georgia, ma anche Slovenia, Croazia e Serbia. Poi ancora Austria, Germania e, attraversando l’Oceano, anche America del Nord e Nuova Zelanda.
Il lungo contatto con le bucce favorisce l’estrazione del colore aranciato, ma anche dei tannini. Chi scrive ha “firmato un contratto” che lo impegna a non nominarli mai invano se di bianchi si tratta. Ma qui non ci si può esimere perché asciugatura e raggrinzimento delle papille filiformi del dorso centrale della lingua sono sensazioni tattili molto tangibili. Il mosto in fermentazione rimane a lungo in contatto con le bucce dei chicchi, traendo da esse i tannini e il colore arancione dorato. Il risultato al naso e in bocca è quello di una percezione ampia e complessa di odori e sapori. Si va dalla vigoria tannica, alla frutta matura, frutta secca, sensazioni erbacee, di infusi, di radici e via dicendo. È la magia di questi orange che danno vita a sensazioni ambivalenti e di forte personalità.
L’orange non è un vino semplice
Diciamocelo subito: l’orange non è un vino semplice. Di certo non puoi proporlo a consumatori di primo pelo. Occorre decisamente avere una certa impostazione cervellotica per riuscire a disintegrare momentaneamente i capisaldi che Ais o Fisar ti inculcano. Oppure frantumare le concezioni standard e irremovibili di chi, consumatore comune, beve solo bianco o solo rosso. E non puoi berlo nemmeno a 8 °C perché un orange andrebbe incontro ad una inevitabile asfissia e immediato mutismo olfattivo, oltre che ad una amara piacevolezza medicinale dai toni di Fernet Branca o Petrus Bonekamp. Meglio accettarlo con le sue rigorose, ma poche, regole.
Anche la Sicilia sta provando a dire la sua in mezzo a questo piccolo grande mare magnum di orange wine. Cos e Arianna Occhipinti nel Vittoriese, Marilena Barbera a Menfi, Abbazia San Giorgio e Serragghia a Pantelleria. E anche tanti altri.
Da pochissimi giorni è nata un’altra piccola grande stella orange nel firmamento dei vini siciliani. È un Catarratto 2017 dell’azienda Rallo e si chiama con una sigla: AV01. Sta Andrea Vesco, il produttore, e – nemmeno a farlo apposta – Aldo Viola, l’enologo.
Nasce a 350 metri di altezza a Patti Piccolo nei pressi di Alcamo (Tp) in un’area di 0,76 ettari in cui convive con le uve del Beleda, dove la resa per pianta è di appena 1,88 kg. Siamo nella fertile terra in cui batte il cuore della viticoltura della Sicilia centro-occidentale. Al confine con Monreale, l’antico villaggio arabo situato alle pendici del Monte Caputo. Qui la coltivazione della vite è frutto di un felice incontro tra l’uomo e il suo l’ambiente sotto la tutela del regime di agricoltura biologica certificata.
La vinificazione è doppia. Prima pressatura a uva intera, botte di legno di acacia di 50 hl per 3-4 giorni. Macera 24 ore. Seconda pressatura più lieve in acciaio. La fermentazione dura 14 giorni. Dopo la malolattica affina sei mesi in vasca e due in bottiglia. È privo di solfiti aggiunti.
Il colore è straordinario. Ambrato, luminoso. Torbido. Non è filtrato e ha una decisa viscosità. Il naso ha molte sfaccettature. Splendide sensazioni di agrumi come pompelmo, poi rabarbaro, zenzero, bitter o analcolico stile Crodino. Ancora nocciola, spezie orientali, nespola, funghi. Macchia mediterranea. Mirto e salvia. Toni di paglia fumante, di chicco immaturo di caffè, thè freddo. Ma anche quel lieve ricordo di umami che lo arricchisce.
In bocca “grippa”, tira. Ma è il suo nerbo, la sua carta d’identità. Non c’è il pizzicore standard da acidità, ma disseta, ti appaga, ti chiama. Ti seduce. Ti vuole lui. Lo cerchi sempre. Un vino scolpito nell’equilibrio della sua garbata rudezza che ha il fascino carnale e l’esuberanza coinvolgente di un’amante, saggiamente accostata, come contrappasso dantesco avrebbe voluto, alla sobria eleganza e alla distinta raffinatezza di una moglie come il Beleda, l’altro Catarratto di casa.
Provatelo con i paccheri agli agrumi con mandorle e gamberi o con un’insalata estiva di finocchio, arancia e aringa. Ne resterete affascinati. [90/100]