Duca di Salaparuta, il futuro della Sicilia è nel segno della continuità 0

PALERMO. La storia di Sicilia nel segno del rinnovamento. Se fosse un titolo il momento di convivialità e di intimità dell’azienda Duca di Salaparuta che ha animato Palazzo Alliata di Villafranca, dimora cinquecentesca che nella prima metà del XVII secolo fu acquisita dagli Alliata di Villafranca, sarebbe proprio questo.

Duca di Salaparuta, due secoli di storia

Un’anticipazione, quella della più storica tra le cantine siciliane, delle novità che quest’anno saranno filo rosso della comunicazione alla fiera del Vinitaly di Verona. Una comunicazione, quella di Duca di Salaparuta, basata su un concetto cardine: la continuità.

Il Gruppo riunisce sotto un unico tetto tre brand: Corvo e Duca, nati nel 1824, e Florio, nel 1833. Tre marchi, ognuno portatore sano delle peculiarità di un terroir diverso, uniti sotto l’egida della costante ricerca d’innovazione e del profondo legame con la terra di Sicilia.

Bianca e Duca Enrico, icone di stile

E Duca lo fa presentando le ultime annate dei suoi due vini “icona”. Icone di stile Bianca di Valguarnera e Duca Enrico, già moderni quasi quarant’anni fa, che oggi attualizzano e ringiovaniscono quella che fu la fulgida lungimiranza di Franco Giacosa.

Vino Florio
Ma c’è un’altra novità: il Vino Florio. Il primo atto dell’opera “Marsala”, che racchiude dentro di sé il tempo e lo stato d’animo di chi sa di interpretare la storia. Nessun fine commerciale sotto traccia, ma solo un esercizio culturale intriso di purezza di comunicazione, coi soli intenti di esaltare l’utile concetto del “tempo” che genera diversità e di riavvicinare i consumatori a dove tutto ebbe ancestralmente inizio.

È non filtrato ed è in continua evoluzione in funzione del tempo, dello spazio e dello stato d’animo di chi lo assaggia. Tredicimila bottiglie dall’alto estratto secco e fitta sapidità salmastra. Un’alta gradazione alcolica e un importante corredo polifenolico che, attraverso un giallo vibrante e una lunga persistenza aromatica, fanno rivelare dolci sensazioni di zagara e gelsomino, preludio organolettico per un futuro vino dal carattere evolutivo e ossidativo.

Bianca di Valguarnera 2020
Al Vinitaly sarà preludio anche per “lei”, seconda pietra miliare in ordine di importanza per Duca. Nasce nel 1987 sempre per volontà di Giacosa che vinifica l’allora più coltivato vitigno siciliano: l’Inzolia.

Allevata a Salemi nella Tenuta Risignolo, Bianca gode di un assistente naturale: i venti. Fanno abbassare la temperatura e permettono la lenta maturazione dell’acino, scongiurando muffe e marciumi.

Una grande estrazione aromatica e un saggio uso del rovere in ambiente “freddo” attualizzano la portata e lo stile di questo vino simbolico per la Sicilia intera. La fermentazione in legno per 10-12 mesi la rende vino dal forte carattere. Austero, ma elegante al tempo stesso.

Trama dorata, ricco di struttura. Esprime macchia mediterranea, note balsamiche, albicocca, pesca gialla, ananas, morbidi cenni mielati, note di vaniglia, di resina e di spezie dolci.

Ampio, morbido, fresco, setoso. Ha già adesso grande piacevolezza di beva che rende fruibile lo spessore della sua magnificenza.

Duca Enrico 2019
Non c’è “Bianca” senza “Duca”. Dedicato ad Enrico Alliata, pronipote di Giuseppe, quest’ultimo fondatore due secoli fa della casa vinicola, oggi Duca Enrico è la fotografia nitida di un racconto enoico internazionale, inseguito e voluto con l’artigianalità del saper fare di quattro decenni fa, cercando l’areale prediletto per quello che sarebbe diventato “il” Nero d’Avola per eccellenza.

Barbara Tamburini, enologo Duca di Salaparuta

«Uno dei vitigni italiani più importanti – dice Barbara Tamburini, enologo dell’azienda. Duca Enrico è storia del Nero d’Avola in Sicilia, in Italia e nel mondo».

Siamo tra i 300 e i 350 metri di altitudine, nei cinque ettari dei 67 dedicati al Nero d’Avola nella tenuta di Suor Marchesa a Riesi (CL), territorio profondamente calcareo e argilloso con struttura drenante in cui le radici della pianta hanno la possibilità di scendere in profondità per trovare l’acqua e sviluppare vigore anche in estate.

«Le piante ad alberello hanno un grande equilibrio vegetativo con un’ottima ventilazione che facilita il lavoro viticolo – continua Barbara Tamburini. Alta densità d’impianto e rese basse. Siamo a circa un chilo di uva per pianta. È come immaginare una sola bottiglia di Duca Enrico per ciascuna di esse».

Tommaso Maggio, enologo cantine Florio, e Roberto Magnisi, direttore delle cantine

In vasca finiscono gli acini diraspati e leggermente pigiati (mai rotti). Fermentazione a temperatura di 28 °C controllata. Poi, dopo la malolattica, 18 mesi tra barrique nuove e di secondo passaggio. Il che si traduce in un profondo rispetto per la componente varietale dell’uva.

Meno di 7 mila bottiglie per questa 2019, ultima annata con inverno fresco, estate calda e qualche pioggia ante raccolto. Vendemmia alla terza settimana di settembre.

Ancora rosso porpora, è un tripudio di fresche note rosse, tra frutta come lampone, marasca, ciliegie scure, e fiori come rosa e viola. Elegante già adesso la componente speziata di pepe nero e ginepro, affiancata da note balsamiche e tenui tostature come la fava di cacao. Complesso ed elegante. Lo ruoti e vengono su sempre nuove sensazioni.

In bocca ha grande struttura, ma è freschissimo. Ritorna la vivacità della frutta rossa assieme ad un tannino, sì fitto, ma maturo e non astringente, che accarezza dolcemente il dorso della lingua sopra ad un finale molto lungo.

Duca Enrico 1984
Lì dove e quando tutto ebbe inizio. L’anno in cui Franco Giacosa fremeva per la bramosa necessità di dimostrare al mondo intero che la Sicilia potesse stare al passo dei grandi, ossia dei Francesi.

Un percorso enoico, già allora contemporaneo, che guardasse al futuro, non giocando in difesa, ma in attacco, a cominciare già dalla scelta del legno per la maturazione. Negli anni ’80 in Sicilia, infatti, si usava il castagno. Giacosa sovvertì le regole adottando il rovere francese. Un concetto, il suo, di “eleganza” tutta siciliana agli occhi del mondo.

Il Nero d’Avola, attraverso Duca Enrico, valica e perde i confini regionali, diventando corale. Diventando vino di tutti. Primo ad essere vinificato come monovarietale, diventa simbolo, emblema di un’enologia siciliana fin lì succube degli eventi. Un passaggio a icona costruita su un substrato di crescita. Un progetto che diventa rivoluzionario poiché funge come uno scoccare di scintilla per tanti altri a seguire.

La linea che Franco Giacosa persegue è quella dell’eccellenza. Era finalmente riuscito a dimostrare l’esistenza di una Sicilia del Nero d’Avola.

Il 1984 ha portato con sé un’annata piovosa e una vendemmia leggermente posticipata tardiva. Sono 12 più 18 i mesi tra legno grande e barrique.

Più che un grande Bordeaux, come farebbe presagire un paragone azzardato (ma mica poi tanto, ndr) della 2019, questa 1984 oggi sembra un grande Borgogna. Una ovvia minore struttura acclama un’elegante sottigliezza e finezza d’espressione.

Ha colore granato-aranciato, ma non ha perso lo smalto della vividezza. Il naso offre una sequela davvero importante, rotonda, circolare. Ha una grande espressione pulita e integra di sensazioni terziarie, ma sono solo benedetto corredo dell’integrazione perfetta con le secondarie.

Cuoio lavorato, lucido da scarpe, goudron, torrefazione, cacao amaro, carruba, frutti di bosco sotto spirito, arancia sanguinella candita, liquirizia, caffè amaro, sottobosco, balsamico. Sconvolgente davvero. È ancora straordinario dopo ben 39 primavere.

Bocca energica e piena di dinamismo. Mostra ancora segni di esuberanza grazie ad un’inaspettata acidità che accompagna perfettamente la corrispondenza di tutte le rilevazioni olfattive. Finale solenne. È davvero ancora magnifico e molto goloso. Se pensi, poi, che stai sorseggiando “il primo dei primi”, vieni immediatamente ammantato da una emozionante sensazione di “Grande Bellezza”.

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